di Tiziana Viganò
Alimentarsi è un
bisogno primario
cui nessuno, dal punto di vista fisico, può fare a meno. Però, mentre tra i
popoli del Terzo Mondo, il significato è esattamente questo e i problemi caso
mai derivano dalla possibilità di poter mangiare per sopravvivere o morire di
fame, nella nostra cultura di paesi cosiddetti avanzati, il cibo cambia
valenza: dove c’è ricchezza di alimenti di ogni tipo e facilità di accesso,
facciamo diventare problematico qualcosa che dovrebbe essere semplice e
naturale. Alcuni studi hanno verificato che gli immigrati di prima generazione
dapprima non comprendono il nostro atteggiamento nei confronti del cibo, ma poi
si adeguano ai nostri modelli, tendono a ingrassare molto, e già la seconda
generazione presenta gli stessi nostri problemi nel rapporto con
l’alimentazione.
Invece
di essere espressione di una equilibrata
cura di sé, attraverso l’introduzione in giusta misura di cose salutari, il
cibo può diventare un nemico, può essere fonte di angoscia perché comporta l’introduzione nel corpo di
qualcosa di estraneo, e questo, in alcune persone disturbate, provoca gravi
difficoltà e patologie. Rispecchia però il timore primordiale dell’uomo
primitivo di essere contaminato, intossicato, oppure il desiderio/repulsione di
assumere le caratteristiche di quello che si introduce nel corpo – eppure tra
popoli come gli aztechi o i cannibali questo diventava un fenomeno religioso.
La Grande Madre: marmo di Pietro Cascella |
Figura femminile: bronzo (1956) di A:Giacometti |
Il
condizionamento sociale pesa
enormemente sia sulle nostre scelte alimentari che sulla percezione e sulla
immagine mentale del nostro corpo. Chi non aderisce ai modelli culturali imperanti prova disagi che sfociano in disturbi del comportamento, perché si crea
una frattura tra il significato simbolico e il significato fisico, tra mente e
corpo. E’
un grave pericolo considerare il cibo come strumento per essere riconosciuti e
approvati dall’ambiente circostante: solo chi è sano, bello, in forma, può
essere accettato dalla società e avere successo? A Sparta, i bambini nati
malformati venivano buttati dalle rupi del Taigeto…
Gli
obesi oggi sono stigmatizzati perché sono sinonimo di mancanza di controllo,
mentre in tempi diversi erano valutati perché portatori di opulenza, ricchezza
e quindi possibilità di mangiare cibo a volontà in un mondo dove la fame
regnava sovrana.
I
mass-media oggi diffondono messaggi, più o meno espliciti ma sempre molto
efficaci: mangiare in un certo modo, consumare determinati cibi può rendere
persone perfette sane felici e di successo. Tutti questi obiettivi desiderabili
sono delegati esclusivamente all’aspetto estetico e alla perfezione del
corpo, così il soggetto si sente
costretto ad adeguarsi al modello sociale a ogni costo, anche a prezzo della
propria salute. Per le donne soprattutto, l’immagine della bellissima,
magrissima, con l’aspetto della ventenne anche a sessant’anni è uno stereotipo
granitico che, anche sotto le apparenze della difesa del femminile da parte
degli uomini “illuminati”, non riesce, ancora oggi, ad essere demolito. Mentre
gli uomini devono per forza essere muscolosi, iperpalestrati con la pancia “a
tartaruga” che in alcuni individui porta all’abuso di cosiddetti “integratori”
di dubbia legalità e di sicuro effetto nocivo sull’organismo.
Il
corpo femminile subisce ancora una volta il potere della cultura dominante:
siamo in un momento storico in cui la donna non è più quella del modello
tradizionale del Novecento, moglie madre casalinga, ma non è neppure la nuova
donna che ha raggiunto le pari opportunità dopo decenni di lotte post
sessantottine. E’ un periodo di transizione: le si chiede tantissimo a livello
psicofisico e domina il mito della bellezza e dell’eterna giovinezza, spesso
secondo modelli irraggiungibili dalle persone comuni.
L’eccesso
di controllo, la volontà di ferro che dà
il potere di sopprimere un bisogno vitale come la fame – nell’anoressia – o il contrario,
l’incontinenza – nel comportamento
compulsivo e nella bulimia – sono sintomi feroci di un malessere che nel
mondo contemporaneo costringe le persone più fragili a fare di tutto per essere
quello che gli altri si attendono da loro.
Una
sfida alla morte, la distruzione del desiderio di essere quello che si è: la
società implacabile impedisce di essere se stessi se non a prezzo di gravi
disagi, in una lotta continua contro ansia da prestazione e depressione.
Non
è un caso che tutti i vari disturbi del
comportamento alimentare, di cui l’anoressia e la bulimia costituiscono
solo le forme più gravi, abbiano raggiunto negli ultimi anni livelli
preoccupanti, per di più in fasce di età
sempre più basse e non solo nelle femmine adolescenti– più tradizionalmente
colpite da queste gravissime forme patologiche – ma anche tra i maschi
adolescenti e adulti, e perfino tra i
bambini, finora meno interessati a questi disturbi. Per non parlare
dell’obesità dilagante, che fotografa una contraddizione e una sfida tra il
desiderio di essere come la società impone e la rabbia, l’ansia e l’incertezza
anestetizzate con la voracità: la ricerca di un godimento materiale facile e
possibile, che guarda all’immediato piacere piuttosto che a un futuro incerto.
Questa
voracità agita o negata sul cibo nasconde spesso l’incapacità di assaporare la
vita in altri modi.
Se
il cibo ha funzione di Vita, il suo rifiuto o l’autodistruzione attraverso
l’eccesso sono negazione della Vita e prendono il significato della Morte.
In
un libro fondamentale del 1942, “L’ Io,
la fame l’aggressività”, Fritz Pearls, fondatore della psicoterapia della
Gestalt, mette in relazione la modalità di approccio al cibo con
l’aggressività: questa va intesa nel senso molto positivo di ad-gredire (dal
latino andare verso), è la spinta alla crescita fisica, esistenziale e
all’autorealizzazione. Possiamo anche chiamarla assertività, e non ha nessun nesso con l’accezione comune negativa
del termine.
Il
neonato si attacca al seno materno e introietta il nutrimento senza uno sforzo critico; con lo
sviluppo dei denti si crea l’inibizione al morso e la paura di ferire e
contemporaneamente si sviluppa la capacità di mordere e masticare, quindi di
distruggere e assimilare sia il cibo che
la realtà quando sia nutriente per l’Io; così come è importante che nasca anche la capacità di disgustarsi e
rifiutare la realtà nociva all’Io.
Quindi
nella simbologia cibo-comportamento la fame è la capacità dell’Io di soddisfare
i propri bisogni attraverso un’attività auto affermativa – l’aggressività o
assertività – che gli consente di assimilare o rifiutare l’ambiente a seconda
che questo sia nutriente o dannoso all’Io, di destrutturarlo o ristrutturarlo
aprendosi alla possibilità di vivere il mondo con pienezza e di adeguarsi
all’ambiente con equilibrio, sapendo dire sì o no. Il nostro rapporto col cibo
riflette tutto questo, è specchio della nostra crescita e della nostra psiche.
Qualche
esempio rapido e semplice serve a chiarire, anche se è meglio non generalizzare:
l’inibizione forzata al seno e lo svezzamento precoce possono provocare
incapacità ad afferrare quello che serve nella vita; la paura di ferire può
diventare senso di colpa, paura di essere ferito, di affrontare un compito, di
realizzarsi; molti adulti che ingoiano il cibo come se fosse liquido, sono
impazienti, avidi, incapaci di raggiungere soddisfazioni; le persone che ingoiano bocconi interi spesso
non sanno digerire i fatti della vita, non tollerano offese, non sanno reagire
assertivamente o al contrario si scaricano dannosamente su se stessi o sugli
altri; quelli che hanno fame di cibo mentale e affettivo non trovano mai
soddisfazione alla loro frenesia perché non sanno assimilare l’affetto che
viene loro offerto, al punto che arrivano a rifiutarlo o disapprovarlo o
togliergli valore se lo ottengono……gli esempi potrebbero continuare
all’infinito.
Il cibo ha quindi
significati psicologici molto profondi, è legato alla memoria più antica, alla
mamma nutrice, con il “seno buono” o il “seno cattivo” di cui parla Melanie
Klein, ai ricordi piacevoli o spiacevoli, agli odori, ai sapori, alle
atmosfere, alle esperienze, alle emozioni, all’erotismo, alla dipendenza, ai
rapporti, anche intimi….tutte cose che assumono un’importanza molto superiore
al semplice bisogno di nutrirsi, almeno nei nostri paesi ricchi dove la
sopravvivenza è garantita per tutti.
Il
primo bisogno del neonato è il cibo
fornito dal seno materno, ma questo comporta anche il riconoscimento di un
altro da sé che è fonte di piacere o di dolore: è la prima relazione, che
condiziona il futuro sviluppo della personalità del bambino, i suoi rapporti
sociali e anche, ovviamente l’approccio al cibo. La mamma premurosa accudisce,
accorre e placa i bisogni del bambino, senza disconoscerli, capisce il suo
pianto senza ricondurlo sempre a uno stimolo di fame – che porterebbe ad
alimentarlo in eccesso – e non lo ignora – atteggiamento che causerebbe
incertezza, senso di abbandono e di rifiuto -.
Il
modo in cui una madre affronta l’alimentazione del suo bambino esprime
l’importanza che il figlio ha per lei: il
cibo non ha solo un’importanza nutrizionale, ma affettiva e relazionale.
D’altro canto il bambino impara presto che il suo pianto, il suo rifiuto o meno
del cibo condizionano l’atteggiamento nei suoi confronti e gli danno un senso
di potere fortissimo o, al contrario un senso di inadeguatezza e di
frustrazione che durerà per sempre.